Roubaix, une lumière.

Desplechin usa il cinema di genere per raccontarci il degrado delle periferie francesi in un film che è, innanzitutto, uno sguardo compassionevole ed un'indagine umana su di esse.

di EMILIANO BAGLIO 02/10/2020 ARTE E SPETTACOLO
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Ci riesce difficile immaginare che si possa vedere l’ultimo lavoro di Arnaud Desplechin se non in lingua originale con sottotitoli.

Perché Roubaix, une lumière è un film di volti, di sguardi, di accenti diversi, di toni, di pause, di lingua, linguaggio e soprattutto di dialoghi e parole; il tutto edificato sulle straordinarie interpretazioni di Roschdy Zem, Sara Forestier e Léa Seydoux.

Ancora una volta Desplechin torna nella sua città natale, tante volte protagonista delle sue pellicole.

Stavolta però lo spunto è attuale, un fatto di cronaca nera già al centro del documentario televisivo del 2007, Roubaix, commisariat central di Mosco Levi Boucault.

Il risultato è un film che usa il cinema di genere, nello specifico il poliziesco procedurale, per descrivere, al tempo stesso, tanto il disfacimento di una comunità quanto per costruire un’indagine dallo sguardo compassionevole, sul male.

Al centro di tutto c’è Roubaix, nord della Francia, da una parte Lilla e dall’altra il Belgio.

Un tempo fiorente centro industriale, oggi la città è in completa decadenza, un luogo di criminalità, povertà, alcolismo e disperazione abitato per lo più da cittadini di origine extracomunitaria.

Al centro di tutto il commissariato ed i suoi poliziotti dei quali il regista riesce a renderci caratteri ed umanità con pochi tocchi, in particolare per quanto riguarda Louis (Antoine Reinartz) appena arrivato lì ed il commissario Daoud (Roschdy Zem).

La prima parte del film cerca quindi di restituire il carattere del luogo con uno stile a metà tra il documentario e l’indagine antropologica.

Una ragazza stuprata nella metropolitana, un’altra scappata di casa, un tentativo di frode assicurativa nel giorno di Natale, una casa bruciata.

Attraverso le varie indagini della polizia viene fuori il ritratto di una comunità oramai abbandonata a sé stessa e senza speranza né futuro.

Su tutto domina Daoud, vero e proprio alter ego del regista.

Nato e cresciuto a Roubaix, il commissario rappresenta quasi la memoria storica del luogo ed osserva tutto con lo sguardo di chi ne ha viste troppe nella vita, prendendo un sacco di schiaffi.

Daoud non alza mai la voce ed il suo è lo sguardo dolente di chi nei criminali che incontra cerca sempre di vederne l’umanità nascosta, tentando di comprendere cosa li abbia portati, ad un certo punto, a scegliere il percorso sbagliato.

Ben presto, senza mai dimenticare le varie storie affrontate che vengono tutte portate a compimento, l’occhio di Desplechin dall’universale si concentra sempre più sul suo commissario e sull’indagine che vede protagoniste Claude (Léa Seydoux) e Marie (Sara Forestier).

Anche in questo caso ciò che interessa l’autore non è tanto la risoluzione del caso quanto l’indagine umana su queste due donne, la loro vita, i loro errori ed il percorso che le ha portate sino la.

Comincia così un poliziesco procedurale che avanza attraverso i continui interrogatori e confronti tra i poliziotti e le due donne.

Desplechin costruisce un film, dominato dai dialoghi e dal taglio quasi documentario, nel quale le varie fasi di tali interrogatori vengono seguite passo passo con correndo anche il rischio che, ad un certo punto, il film si appesantisca in questo continuo confronto verbale.

Eppure, questo insistenza nel proporre allo spettatore tutte le fasi dell’indagine, quando altri avrebbero risolto il tutto in pochi minuti, ha il compito di andare alle radici di tutto il degrado umano, economico e morale mostrato sino a quel momento.

Insomma il regista decide, come già detto, di usare il cinema di genere per descriverci la periferia degradata della Francia e trasforma il suo film in una indagine umanista e compassionevole sulle origini del male.

Così da un lato, come viene ricostruito nei dialoghi, abbiamo Claude che è sempre stata bella, adorata, probabilmente, da piccola, regina della scuola al liceo.

Sino a quando la bellezza non è più servita a nulla e la ragazza si è ritrovata a trenta anni con un figlio ed un’esistenza precaria fatta di droga ed alcol in una casa umida senza nessun futuro.

Accanto a lei Marie, follemente innamorata (non ricambiata) da Claude. Un’altra ragazza che nella vita ha preso solo calci in faccia anche per il suo aspetto da maschiaccio e non ha mai conosciuto né tenerezza, né amore.

Desplechin/Daoud non giudicano, semplicemente cercano di restituire un po’ di umanità in queste due esistenza allo sbando.

Ancora una volta ci ritroviamo a fare i conti, come con I miserabili di Ladj Ly (http://www.euroroma.net/8989/ARTEESPETTACOLO/i-miserabili-un-potentissimo-esordio-che-tra-action-e-sguardo-antropologico-ci-restituisce-la-vita-quotidiana-delle-periferie-dimenticate-.html), con un film francese capace di raccontarci il nostro mondo moderno e la povertà delle sue periferie dimenticate, utilizzando il registro del cinema di genere.

Il pensiero non può che correre ad esempi simili nella nostra cinematografia, ed il confronto, purtroppo, è impietoso.

 

EMILIANO BAGLIO


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